E’uscita il 2 Marzo ma l’ho intercettata solo adesso: è un’intervista che il capo della Strategia Musicale di Spotify Jeremy Erlich ha rilasciato a Forbes.
Ci sono alcuni punti fondamentali, passaggi che ultimamente sono molto dibattuti, sopratutto sulle playlist, su quelle editoriali e algoritmiche, ma anche sula miriade di società esterne a Spotify che lucrano sugli artisti.
I CURATORI
Erlich spiega che i curatori che Spotify ha nei vari paesi, devono fare in modo che ogni ‘good song‘ abbia la possibilità di arrivare ‘in cima alla piramide‘.
Ma i curatori possono essere anche convinti in qualche altro modo?
Il ‘playlist submission tool‘ è lo strumento che troviamo in Spotify For Artist nel momento in cui abbiamo un brano in uscita, ed è l’unico modo riconosciuto da Spotify per far parte di una playlist.
MERITOCRAZIA E ORGANICITA’
In più aggiunge una cosa molto interessante e che molte agenzie che lavorano con le playlist non vogliono ammettere: “No one was pushing those songs“, le canzoni conosciute sono cresciute organicamente perché avevano le giuste caratteristiche. Su Tones And I dice anche un’altra cosa.
Erlich parla dell’effetto palla di Neve: “Dance Monkey” di Tones And I è stata prima ‘scoperta’ dal curatore australiano, una volta posizionata in una playlist locale, il brano ha avuto un ottimo riscontro di pubblico, così un curatore scandinavo ha provato a inserirla in un’altra playlist e otto settimane dopo era globale. Meritocrazia e organicità.
LE METRICHE DELLE PLAYLIST
Ma veniamo alle cose tecniche: quali sono le metriche secondo le quali un brano può entrare in playlist?
L’algoritmo guarda:
- per quanto tempo è stato ascoltato il brano e se supera la soglia dei 30 secondi (per far scattare il conteggio dello stream)
- se gli utenti cercano il brano oppure lo ascoltano solo dalle playlist
- la percentuale di skip, collegata al primo punto
CURATOR DOVE SEI
Quindi un artista cosa dovrebbe fare per essere notato dai curators?
La musica sempre al primo posto, ottimo, ma attenzione: l’artista deve avere anche la giusta ‘visual identity‘, o quanto meno facilmente riconoscibile, diciamo. E poi un rapporto con il proprio pubblico, insomma, non chiudersi in casa a suonare per se stessi.
SCAMMERS
Poi arriviamo al punto relativo a tutte quelle aziende che in qualche modo vivono dell’indotto di Spotify, in particolare sulla promozione e che si fanno pagare per fare in modo che il brano vada nelle playlist.
Non c’è bisogno che traduca questo ultimo punto, giusto?
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