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Come YouTube e Spotify hanno modificato il modo di comporre

Un giovane studente della Ohio State University ha pubblicato uno studio di come si sono evolute le composizioni nell’arco di 30 anni, i risultati sono decisamente interessanti, soprattutto quelli più filosofici.

Ma prima di arrivarci, ecco la storia del Darwinismo musicale.

Quando si vendevano i CD e si scrivevano album, il mercato musicale non andava male, poi Steve Jobs ‘Il Grande’ si inventoiTunes e tutto crollò. Dopo anni di carestie e trimestri in profondo rosso, ecco che si fece spazio tra le nubi in tempesta la parola “accesso”, illuminò il cielo, i raggi scaldarono l’aria, i discografici non capirono subito ma si diedero comunque alle danze e i consumatori lessero “gratis”, e si diedero alle danze con i discografici.

In tutto questo giubilo solo i musicisti capirono che qualcosa non tornava e che quella parola scolpita nel firmamento poteva essere una sòla: se accesso si legge gratis noi come facciamo?

Ed ecco Ek: dalla Svezia dei partiti pirata arriva il Capitano che sa navigare nelle acque impestate dagli scrocconi e che riesce a sconfiggere il download illegale con lo streaming supportato dalla pubblicità. Poi non si ferma più e sconfigge anche il download legale. Poi non si ferma più e sconfigge anche l’incolpevole album, e mette al suo posto la playlist.

E allora tutti i musicisti a dire: “E adesso come facciamo? Chi ascolterà più i nostri sproloqui musicali?” (nda: la parola ‘sproloqui’ è stata mal tradotta dallo svedese-aramaico, in realtà la traduzione corretta era ‘discorsi’, ma la post verità hai suoi grossi problemi).

I dinosauri degli assoli scomparvero già a inizio millennio; oggi siamo qui a testimoniare la scomparsa della specie intro delle canzoni.

In principio fu YouTube che definì il concetto di “Primi 5 secondi di attenzione”, ossia: se non fai accadere nulla nei primi istanti del video l’utente se ne clicca via. Questo contagiò anche la musica che iniziò a sperimentare il ritorno al ritornello iniziale, una pratica già in uso a Liverpool negli anni ’60.

Poi arrivò Facebook con la sua bella home degli aggiornamenti, e con i video nativi che partono in automatico. La massa non mise mai mano alle opzioni per impedire che questo avvenisse, e così a Menlo Park iniziarono a contare tutti quelli a cui partiva il video in automatico sul proprio stream, facendolo passare come interesse vero e non come un’azione di default. In sostanza, se un contenuto è interessante lo decido mentre scorro gli aggiornamenti, video compresi, e questo comportamento abbassò la soglia di attenzione a 2.5 secondi (il tempo di scrollare via un video non interessante).

Quando fu il momento di Spotify e delle playlist, il musicista capì che doveva evitare di fare la fine dei dinosauri dell’assolo, e iniziò a comporre brani immediati, evitando il concetto di ‘concetto’, diversificando i suoi brani ed evitando il più possibile di cadere nel tranello dell’introduzione: la trappola più pericolosa per il musicista degli anni ’010.

Non solo, anche il ritornello deve necessariamente arrivare prima che scocchi il 60esimo secondo, meglio se il mega hook arriva ai 40’’.

Il dettaglio di quest’ultimo cambiamento nella composizione lo possiamo trovare in questo studio realizzato dal bravo universitario della Ohio State che ha analizzato 303 brani da Top10 dal 1986 al 2015. Hubert Léveillé Gauvin ha scoperto che:

  • Le intro sono quasi scomparse

  • I BPM sono aumentati

  • Il titolo del brano viene ‘cantato’ subito

  • … e contiene meno parole, spesso una sola

  • Il ritornello arriva molto prima rispetto a 30 anni fa

“E’ la sopravvivenza dell’adattamento” spiega Léveillé Gauvin “I brani che riescono a mantenere alta l’attenzione degli ascoltatori sono quelli che vengono più ascoltati e meno skippati. Perché se dai la possibilità agli utenti di andare avanti in maniera gratuita, c’è bisogno di qualcosa che focalizzi la sua attenzione”.

Altro grande cambiamento che si può intuire in questo studio è lo spostamento del baricentro da “artista che scrive canzoni” ad “artista attento al proprio brand personale”.

Sia i musicisti sia i produttori hanno cessato di pensare alla propria musica come un bene culturale” continua il buon Hubert“Sfruttano le canzoni come pubblicità per se stessi. Il prodotto non è più necessariamente il brano, ma il proprio brand personale. Viviamo nel periodo dell’economia dell’attenzione, e l’attenzione è scarsa e preziosa”.

In grassetto si capisce meglio: l’attenzione è scarsa e preziosa.

Quindi, siete più attenti nello scrivere canzoni che comunichino il vostro stato d’animo, o che comunichino il vostro status?

Metti la X:

  • Bruno Mars

  • Brunori Sas

  • Brunori Mars

 

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